Davide Scarabelli

Le idee della scultura

Fa piacere sentire pronunciare la parola scultura in tempi come questi, fagocitati da un’ibrida oggettistica pseudo design che confonde pittura e scultura attraverso una sorta di manipolazione digitale.
In secondo luogo, abbinata al pensiero, la parola non può non richiamare alla memoria quel testo di Arturo Martini, “Scultura, lingua morta”, che, sebbene abbia molti anni, conserva una freschezza e un’attualità sorprendenti per chiunque voglia cimentarsi autenticamente con questa disciplina. Infine, consente di porre l’accento sulla nozione, il pensiero per l’appunto, dalla quale la scultura di Scarabelli prende le mosse: ed è nozione che la critica non ha colto in modo preciso e determinato, probabilmente perché affascinata da altri aspetti, quali la dialettica forma – informe o casualità – programma, l’onirismo, la cultura dei materiali, l’estro nativo, l’insaziata curiosità del fare…, tutte osservazioni pertinenti, ma che lasciano in ombra le ragioni di necessità dell’opera di Scarabelli.
E allora, si dovrà dire che il pensiero cui si fa riferimento, in questo caso, non è quello freddo e distaccato di matrice concettuale, né quello organico e alchemico del poverismo, piuttosto quello tutto sensibile che nasce dal fare – dall’esperienza nella quale l’artista si trova calato e dal rapporto costante e ininterrotto coi materiali e gli strumenti che ha sotto mano – e che si sviluppa facendo. Ora, ogni pensiero che si possa definire tale, che non sia mera elucubrazione, è il prodotto di un rapporto tra la mente e il suo oggetto, e ha una sua storia e un suo moto che si manifestano e consolidano in forma. Questo pensiero, questi pensieri, nell’opera di Scarabelli, si riassumono in alcuni modi ricorrenti, che costituiscono, a ben vedere, la continuità del lavoro negli anni, ma che marcano anche le differenze e i mutamenti. Tali “modi” possono essere individuati nella voluta, nella piega, la sutura e la faglia, tenendo presente che sono forme della materia di un linguaggio, quello usato da Scarabelli, che si esplica attraverso l’assemblaggio e sue derivazioni e varianti.
Di qui conviene prendere le mosse.
L’assemblaggio, si sa, è una delle tecniche centrali del ventesimo secolo. Essa testimonia, se mai altre (il collage, ad esempio), l’esplosione in atto dell’universo fisico, storico, culturale, sociale. All’interno di questa esplosione, ogni artista individua i propri modi di composizione, non per restaurare o ripristinare quel mondo, ma per individuare nuovi orizzonti e nuovi mondi.
Ora, l’assemblaggio di Scarabelli è l’attivazione dei rumori del mondo, del frastuono di fondo della vita che scorre, per raggiungere il silenzio.
Il tipo di assemblaggio che egli persegue non mira a competere con l’immaginario consumistico e tecnologico (come fanno, invece, Chamberlain o Scarpitta), ma a creare una metamorfosi materica all’interno della quale l’universo di provenienza non è più riconoscibile.
L’oggetto, una volta trasformato, una volta sottoposto al passaggio da materiale a materia, è costretto a rivelare la propria sostanza “plastica scultorea” in modi che ribaltano il rapporto tradizionale figura sfondo, a far sì che il rumore presente in esso decanti in una visione nella quale il frammento, la scheggia, il residuo siano la pausa, l’intervallo di quel rumore dal quale discendono.
Le forme, i modi che ho citato più sopra, cioè la voluta, la piega, la sutura e la faglia, sono, nell’abbigliamento come nell’architettura, il contorno (lo sfondo) che accompagna la figura.
Condurre a centralità queste “marginalità” significa rinvenire nelle pieghe, nelle volute, nelle fratture e suture del discorso gli “intervalli” significanti, le pause illuminanti tra una parola e l’altra e a confermare al linguaggio plastico che “fa volume” il compito di riscattare l’oggetto comune.
A questo punto occorrerebbe una disamina delle opere che tenga conto delle coordinate che siamo venuti costruendo. Se motivi di spazio impediscono un simile excursus, tuttavia un nucleo davvero notevole di sedici opere significative di intenti e volontà ideative (penso a: “Cattedrale”, “Città”, “Divisi”, “Rivoluzione”, “La colpa”, “Prova d’autore”, “19 agosto 1991”, “Mutevole”, “Sutura”, “Due in uno”, “Vertice inverso”, “Lacerata”, “Uniti alla base”, “Si bemolle”, “Verso il cielo”, “Le colonne di…”) consente un paio di considerazioni, la prima delle quali è che quanto più i modi e gli strumenti di Scarabelli sono aggiornati ed attuali tanto più gli esiti sono tesi al dialogo con la tradizione più alta.
La seconda ci permette di affermare che la sua opera non va intesa come ultimo sviluppo dell’informale, ma come meditata e sapiente ricerca di un estremo barocco.
Su questo e su altro ancora conviene appuntare l’attenzione a proposito dell’opera di Davide Scarabelli.
Il sicuro mestiere e l’esperienza quarantennale sono indiscutibili fondamenti per quanto egli saprà ancora comporre.
L’afflato di infinito e il respiro dell’essere compressi in una misura che dell’inquietudine e della distorsione ha fatto il nucleo centrale e la disciplina del proprio operare non possono che essere i punti fermi della sua vocazione.

Mario Bertoni

 
 
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