Ildegarda ma quanto sei moderna

a cura di Elisabetta Landi

 

“Questo è un tempo femminile…”. Davanti a sè, schierati, Ildegarda di Bingen aveva i monaci di Magonza. Che all’epoca godesse di tanta autorità una donna è difficile da immaginare. Ma Ildegarda era la “Profetessa”, la Sibilla del Reno conosciuta ovunque, e anche se la sua figura è complessa, troppo, per poter essere raccontata in poco spazio, restano le sue opere, i codici e la storiografia a raccontare questa benedettina dichiarata santa e dottore della Chiesa nel 2012. Già dagli anni settanta il suo mito era vivo presso le leghe cattoliche femminili e le femministe, alla ricerca di “antenate”; si cominciava a comprenderne l’originalità, e l’attualità di pensiero, per la medicina olistica e più in generale per la concezione della natura e del corpo, in particolare quello della donna: nel XII secolo, una “visione” sorprendente. “Visionaria” nel senso mistico del termine (ma ben radicata), Ildegarda cominciò ad avere apparizioni fin da bambina; le temeva, e non ne fece parola con nessuno. A otto anni i genitori la condussero a Disibodenberg, all’abbazia benedettina, e qui l’affidarono a Jutta: sedicenne reclusa nel cuore del monastero, le insegnò il salterio, l’avviò alla musica e le dovette trasmettere un senso gioioso della fisicità per reazione alle mortificazioni che lei stessa si infliggeva; forse, nel silenzio della notte, come in una scena del film Vision di Margarethe von Trotta (2009).
Jutta durò fino al 1136; a Ildegarda toccò rimuovere il cilicio dalle sue carni e subentrarle nel ruolo di badessa. Di lì, trasferì la comunità a Rupertsberg, fondando poi altri monasteri ispirati alla regola. Nel frattempo, le visioni continuavano ma lei manteneva il silenzio. Non era ancora il tempo dei roghi, ma il fenomeno consigliava prudenza; finchè, nel 1141, una “luce piena di fuoco” la esortò a comunicare le sue esperienze. “Non vedo con gli occhi del corpo, ma [la luce] mi appare nello spirito…”. A Bernardo da Chiaravalle non restò che ratificare, con la benedizione di Eugenio III. Da lì, Ildegarda si avviò verso la sua avventura di badessa, predicatrice itinerante, guida di papi e  imperatori e specialmente di scienziata che traduceva in codici, miniati nel suo scriptorium, ciò che le rivelavano le visioni: apparizioni arcane sì, ma mai fantastiche, anzi, innestate sulla realtà e integrate dallo studio della documentazione messa a sua disposizione nei conventi, o presso i regnanti con i quali intratteneva relazioni: non ultimo il Barbarossa (che in seguito le toccò sfidare perché aveva eletto due antipapi).
Si potrebbe dire che la sua produzione riflettesse per alcuni aspetti l’enciclopedismo medioevale ma lei lo superò, dirigendosi verso direzioni insondabili: si interessò al cosmo, ai saperi d’oriente, fu erborista, guaritrice e all’occorrenza esorcista, teologa, filosofa, letterata, drammaturga, artista, creò una lingua segreta e andò oltre. Tra le opere più famose, la trilogia profetica del Liber Scivias, il Liber vitae meritorum e il Liber divinorum operum sulla cosmologia e gli influssi astrali che si ammira in Italia, a Lucca (Biblioteca Statale), nella versione più antica riproposta in un’edizione recente a cura di Sara Salvadori e di Michela Pereira (Hildegard von Bingen. Nel cuore di Dio, 2021). Seguono, poi, gli scritti sulla fisiologia “visibile” (Physica), e su quella invisibile (Libro delle energie sottili), le partiture musicali e la sacra rappresentazione per la guarigione dell’anima, l’Ordo virtutum, un percorso verso la salvezza con la regia della badessa e la segnaletica delle note, dei testi, e dei colori smaltati delle miniature.
Nel complesso, una produzione monumentale (on line nella Patrologia del Migne).
Non c’è dubbio che il suo aspetto più noto sia la pratica delle cure naturali e della fitoterapia. Nell’orto officinale del convento Ildegarda carpiva le virtù delle piante per guarire il corpo e lo spirito; in quel luogo chiuso, specchio dell’eden, arrivò a intuizioni trasversali al tempo e alla storia. Tema centrale, per lei, era la reintegrazione dell’armonia della Creazione spezzata dalla “caduta”. La malattia è assenza di gioia (Scivias), e consegue alla frattura dell’equilibrio con l’Ambiente che l’umanità ha il compito di custodire, riconoscendosene parte integrante: un concetto strepitosamente moderno. Per guarire, bisognava riconnettersi con la Natura. Per vivificare il corpo e lo spirito c’era un potere, una “forza verde”: la Viriditas, che per gli alchimisti indicava un passaggio nell’opus della trasmutazione. “O Viriditas nobilissima che hai radici nel Sole…”. Così, nel linguaggio di Ildegarda. Difficile trovarne una traduzione. La si potrebbe definire ignea vis, energia di fuoco con la quale il Verbo unisce l’umanità e il Creato in un’appartenenza reciproca, soffio dello Spirito o “energia creativa cosmica allo stato nascente” come l’ha definita Maurizio Osti (Viriditas, 2013); certamente, una “parola che splende” (Luca Cesari), e un Sole che scalda e che non brucia, armonizzando l’anima con la Natura.
Su questa base, eternamente “green” e attuale, Ildegarda pose i suoi fondamenti e quando il “verde” non bastava più, ecco il potere dei cristalli, la musicoterapia e persino l’alimentazione. Ma ciò che più è straordinaria, è la sua visione “antropologica”, e il modo lucido di restituire valore al corpo: una visione avanti anni luce. Che una figura così moderna fosse riconosciuta come consigliera ci dice molto sui suoi carismi, e sulla sua autorità, tanto più in un’epoca nella quale era vivo il monito paolino che aveva tolto la parola alle donne: la parola e il respiro, inteso come identità, perché in una polifonia di uomini non emergesse una voce di femmina come “via d’uscita dal patriarcato” (Luce Irigaray, Il respiro delle donne). E tuttavia, se questa donna è Ildegarda tutto è possibile, e in quel medioevo più aperto di quanto non si creda accadeva, alla fine, che il potere maschile prendesse atto della “visione” della badessa. «Immaginate che la donna immagini» (Irigaray): difficile, parlando della Sibilla, raccogliere questo invito; il suo cervello ci sfugge, ma in alternativa ai dogmi inchiodati sul pensiero patriarcale lei baipassò il suo tempo, e dedicò pagine senza precedenti al Femminile. Per prima cosa, essere donna non era uno svantaggio: tutt’altro. La “fragilità” era una forza invisibile, uno “stato di coscienza” accogliente necessario per ricevere la trascendenza. E del resto, le qualità del “com-prendere” e dell’accudire erano, e sono, in sintonia con l’atto creativo. Prendendo le distanze dalla letteratura ascetica e con l’obbiettività di un medico Ildegarda fu la prima “sessuologa” della storia. Nel Liber divinorum operum raccontò la corporeità della donna sottraendola al controllo, e ai limiti, della visione maschile e descrisse la fisiologia “sottile” dell’atto sessuale agganciandolo alla Viriditas, la fecondità della Vita come progetto divino (“l’amore dell’uomo è ardore simile a un incendio che divampa nel bosco; quello della donna assomiglia al caldo tepore del sole che fa crescere i frutti”) (Libro delle medicine composte). Fecondità biologica ma anche spirituale, e Viriditas intesa come Bellezza che irradia dalla Donna, l’erede di Eva: “l’ultima e la più perfetta delle creature perché nata dalla carne già umana”, e non dalla terra come il suo compagno Adamo. Nel XII secolo, la società patriarcale la raccontava in maniera diversa…

 
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